James Joyce: monologo interiore.
SI VA IN SCENA.
“Mi chiamo la figlia di James
Joyce” disse sul palco confondendosi nell’istante successivo, abbassò gli
occhi, forse avrebbe dovuto scandire semplicemente il nome “Lucia”. Sfilò i
guanti e li gettò a terra tra i muscoli tesi dei ballerini. Mio padre, come il
suo, è un uomo ingombrante e dice di amarmi. Mi vede “plastica”, una creatura
perfetta. Ciò che non notava nemmeno Joyce era la confusione creata dalla
disperazione di non trovare un’identità. Danzare è una forma di libertà, come
qualsiasi tipo di arte che fa evadere prigionieri, che taglia milioni di grate,
che scassina porte, che abbandona muri pregni di attese. Uno scrittore,
genitore giovane, amante della perfezione che mitizza una creatura portatrice
del suo sangue, che schiaccia le insicurezze profonde di chi usa l’espressività
tramite il corpo ma non quella comunicazione sufficiente per dare adito a nuovi
romanzi, ad un nuovo fervore, a nuovi giochi che chiameremo “stili
sperimentali”. “Migliorare nonostante il clandestino sequestro” pensò
disarmata. Eppure la capisco, provo a comprendere che la devozione, in casi come
questi, è quasi dovuta. Rammento l’estate in cui anche mia madre, stupida donna
ficcanaso, trovò suo marito chino alla scrivania tra la frenesia dei miei
movimenti; più mi dimenavo più una mano fradicia tramutava l’entusiasmo
corporeo in ambiziose e fresche storie. Lucia fu tolta dalla culla parigina e
le fu imposto un futuro in Inghilterra: venne lo svantaggio delle prospettive
senza battesimo. Quando conosci il luogo e il tempo dove un pubblico
sconosciuto ti adora non hai l’armatura per il diverso. Non poteva odiare suo
padre per averle imposto una realtà estranea e prepotente. Lei, silenziosa e
candida come la luna coperta dall’eclissi, lui costante e cocente più del sole.
Un fenomeno abituale che abbatte la rarità. La morbosità è un difetto, sempre. Perché
non la sanno azzerare, appiattire, pestare? Distruggetela stupidi padroni! Non
credo che Giorgio, in verità, sia mio fratello come dicono. Nemmeno lei ne era
sicura. Non ci assomigliamo, mi esamina come una folle da rinchiudere per
schizofrenia ma a disposizione, qui, non ho la saggezza di Jung, non ho nessuno
a cui spiegare che il microcosmo in cui vivo esiste, è paziente e mi aspetta.
Lucia provò a suicidarsi svariate volte ma ci vuole poco per capire che era una
disperata ricerca di attenzione, un esempio di arte drammatica probabilmente:
io, ora, sto scrivendo di artisti! Joyce era lo stesso che sosteneva: “Un uomo
affamato è un uomo arrabbiato”. Mia “sorella” Lucia era la portata pregiata
distesa sul vassoio delle feste. Uno specchiarsi inquieto e vicendevole vissuto
in famiglia. Ho letto che questo padre non scrisse di una passione: la visse.
Sono figlia unica ma nelle camere della coscienza ti serve una confidente,
anche vissuta nel 1900. Tutto nasce dalle epoche lontane, l’importante è che si
racconti che non ero sola nello stato catatonico la sera di 2 settimane fa,
insensibile agli stimoli e priva di teorie. Una forma sinuosa ondeggiava sul
tappeto, senza radici. Non l’ho scambiata per nessun altro se non per la
pienezza di una donna dal nome Lucia Joyce. Siamo giunte ad una bellezza unica:
io e lei sulle punte, viviamo in bilico.
Nessun commento:
Posta un commento