martedì 26 febbraio 2013

Scrittura Creativa Numero 15

Joyce mi piace al punto tale da commuovermi sentendolo leggere. La magia sta nell'emozione per le piccole grandi cose.

James Joyce: monologo interiore.


SI VA IN SCENA.
“Mi chiamo la figlia di James Joyce” disse sul palco confondendosi nell’istante successivo, abbassò gli occhi, forse avrebbe dovuto scandire semplicemente il nome “Lucia”. Sfilò i guanti e li gettò a terra tra i muscoli tesi dei ballerini. Mio padre, come il suo, è un uomo ingombrante e dice di amarmi. Mi vede “plastica”, una creatura perfetta. Ciò che non notava nemmeno Joyce era la confusione creata dalla disperazione di non trovare un’identità. Danzare è una forma di libertà, come qualsiasi tipo di arte che fa evadere prigionieri, che taglia milioni di grate, che scassina porte, che abbandona muri pregni di attese. Uno scrittore, genitore giovane, amante della perfezione che mitizza una creatura portatrice del suo sangue, che schiaccia le insicurezze profonde di chi usa l’espressività tramite il corpo ma non quella comunicazione sufficiente per dare adito a nuovi romanzi, ad un nuovo fervore, a nuovi giochi che chiameremo “stili sperimentali”. “Migliorare nonostante il clandestino sequestro” pensò disarmata. Eppure la capisco, provo a comprendere che la devozione, in casi come questi, è quasi dovuta. Rammento l’estate in cui anche mia madre, stupida donna ficcanaso, trovò suo marito chino alla scrivania tra la frenesia dei miei movimenti; più mi dimenavo più una mano fradicia tramutava l’entusiasmo corporeo in ambiziose e fresche storie. Lucia fu tolta dalla culla parigina e le fu imposto un futuro in Inghilterra: venne lo svantaggio delle prospettive senza battesimo. Quando conosci il luogo e il tempo dove un pubblico sconosciuto ti adora non hai l’armatura per il diverso. Non poteva odiare suo padre per averle imposto una realtà estranea e prepotente. Lei, silenziosa e candida come la luna coperta dall’eclissi, lui costante e cocente più del sole. Un fenomeno abituale che abbatte la rarità. La morbosità è un difetto, sempre. Perché non la sanno azzerare, appiattire, pestare? Distruggetela stupidi padroni! Non credo che Giorgio, in verità, sia mio fratello come dicono. Nemmeno lei ne era sicura. Non ci assomigliamo, mi esamina come una folle da rinchiudere per schizofrenia ma a disposizione, qui, non ho la saggezza di Jung, non ho nessuno a cui spiegare che il microcosmo in cui vivo esiste, è paziente e mi aspetta. Lucia provò a suicidarsi svariate volte ma ci vuole poco per capire che era una disperata ricerca di attenzione, un esempio di arte drammatica probabilmente: io, ora, sto scrivendo di artisti! Joyce era lo stesso che sosteneva: “Un uomo affamato è un uomo arrabbiato”. Mia “sorella” Lucia era la portata pregiata distesa sul vassoio delle feste. Uno specchiarsi inquieto e vicendevole vissuto in famiglia. Ho letto che questo padre non scrisse di una passione: la visse. Sono figlia unica ma nelle camere della coscienza ti serve una confidente, anche vissuta nel 1900. Tutto nasce dalle epoche lontane, l’importante è che si racconti che non ero sola nello stato catatonico la sera di 2 settimane fa, insensibile agli stimoli e priva di teorie. Una forma sinuosa ondeggiava sul tappeto, senza radici. Non l’ho scambiata per nessun altro se non per la pienezza di una donna dal nome Lucia Joyce. Siamo giunte ad una bellezza unica: io e lei sulle punte, viviamo in bilico. 

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