martedì 29 gennaio 2013

Scrittura Creativa Numero 10

TEMA: Pensiero all'unisono.


GIOCANASH.

Ti chiami Giocanash. Giocanash Madei. Chissà qual è il significato di questo buffo nome nella tua lingua e perché l’hanno scelto per te. L’abbiamo sempre associato all’allegria dei bambini, alla corsa di un girotondo, alla voglia di essere innocentemente spensierati nonostante tutto. Sei nata in un villaggio della Nigeria, 30 anni fa, dove la terra è come ora la si vede in TV, del colore della nocciola, della paglia o della lava,  con animali con grosse bocche e ci chiedevamo se non avessi avuto paura almeno una volta. Eri esile in un viso sforzato ma ridente appeso allo sfondo della lavagna, capelli come un cespuglio, occhi bellissimi e una collana col piccolo elefantino color avorio. Il primo giorno, finché la professoressa spiegava la tua travagliata storia lo stringevi tra i polpastrelli e sentivi di potercela fare. Eravamo una classe di scapestrati, figli viziati, figli ricchi della parola “nulla” riuniti, per sconfitta genitoriale, in una scuola pubblica senza pretese. Libri, quaderni, matite e penne fecero da cornice ad un mondo non noto. Quasi toccante il tuo arrivo, come una curiosità antica che avvicina e unisce. Guardavamo ammirati la differenza brillante dei tuoi abiti rispetto ai nostri. In silenzio ascoltavamo il raccontare graduale di te che, in una voce spaventata cercava consensi. Nel marzo dell’ 81 ti insegnammo a scrivere “Buon Compleanno” in inglese, per tua madre. Sembrava una stravaganza elementare tra le lezioni di matematica e grafica!! Tornavamo caparbiamente nel passato per la ricerca di volti complici ed educazioni primordiali. Eri parte di noi. Eri nella squadra. Distante da lunghi fiumi e case di terra ci proponevi sicurezza, la stessa che a noi per assurdo mancava. Le parole erano gocce, parsimoniose come i segreti, custodite nella consapevolezza precoce della povertà, della fatica e dell’orrore della miseria. Comprammo per gli interi 5 anni vissuti assieme dei DVD sul tuo Paese, li guardavamo attenti nelle ore di geografia, per omaggiarti, per vederti commossa nel bagliore del sole d’Africa, per noi, per viaggiare in distese rigogliose di illusioni e ninnananne a cielo aperto. Arrivò sincera quella mattina dove ci raccontasti della pace della savana dove raccoglievi l’acqua al piccolo laghetto dei leoni, dove ogni estate arrivavano le giraffe, dove avevi conosciuto un amico. Ci insegnasti che la paura scompare quando dimentichi di fuggire, quando provi ad appartenere ad una natura differente da te, quando incontri la fiducia. Siamo tutti d’accordo nell’affermare che non ritrovammo mai più una conversazione tanto affascinante. Lo chiamasti Mugambi, un elefante albino nato davanti all’incredulità del tuo sguardo, tra la furia del dolore e l’incredibile dono dell’unicità. Corsi da tuo padre, lo stesso che nelle storie tramandate parlava di zebre più bianche che nere, di nuvole più bianche che calme , di uccelli più bianchi che liberi  e nell’ innocenza chiedevi: “Ma nemmeno un elefante bianco, papà?” Ti ripeteva che era una rarità, un animale simbolo di potere e prosperità.  Imparasti a credere nelle speranze inventate che nessuno annienta perché sono sogni del cuore. Ti feci doverosamente grata agli estremi nei quali l’uomo non smette di confidare. Un portafortuna donato dalle stelle ad una bambina privata di molto.

10 anni dopo, siamo in un ristorante a rivangare innamoramenti, scherzi, confidenze adolescenziali ed animali straordinari. C’è una sedia vuota e la certezza di te felice, lontana, mescolata alle suggestive fatalità che il destino riserva  ad ognuno di noi.

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